Gaetano Colonna, dottore di ricerca in Storia antica e cultore di Storia contemporanea, collaboratore della rivista telematica “Clarissa.it“, ha recentemente pubblicato la sua seconda opera, intitolata Medio Oriente senza pace. Da Suez al Golfo e oltre: strategie, conflitti e speranze (Edilibri, Milano 2009). Daniele Scalea lo ha intervistato per il sito di “Eurasia”.
Nella sua recente opera Medio Oriente senza pace dedica un capitolo al “ruolo del sionismo cristiano”, fenomeno generalmente considerato solo con riferimento agli ultimi anni, ma di cui lei individua la prima manifestazione già nell’Ottocento, e le radici nei secoli precedenti. Potrebbe parlarcene brevemente?
Il fenomeno è stato curiosamente trascurato dalla storiografia occidentale e anche da quella israeliana: è singolare ad esempio che non vi siano studi approfonditi sulla formidabile figura di William Henry Hechler che svolse, come accenno nel libro, un ruolo fondamentale nella nascita del movimento sionista dal punto di vista politico. In realtà si tratta di un elemento di straordinario interesse sul piano politico e religioso perché mostra che le classi dirigenti anglo-sassoni, partendo da Cromwell fino ad arrivare a Woodrow Wilson, furono straordinariamente sensibili all’idea che il ritorno del popolo ebraico in Palestina, e la sua ipotizzata conversione, avrebbero permesso la realizzazione del Secondo Avvento. Una motivazione che risulta sottesa a gran parte della strategia imperialista britannica in Medio Oriente nel corso dell’Ottocento. Potremmo dire quindi che il sionismo è frutto di un preciso clima spirituale anglosassone.
Oltre al ruolo di questo “sionismo cristiano”, quali altri elementi ritiene che spieghino l’appoggio che l’Europa e gli USA hanno dato (e stanno dando con sempre maggiore zelo) alle politiche di Israele?
Nel libro viene spiegato, credo ad un sufficiente livello di dettaglio, che Israele ha saputo gettare le basi, con un lungo ed intelligente percorso culturale e politico, di una comune classe dirigente israelo-statunitense che di fatto, da almeno un ventennio, ha la direzione strategica della politica mediorientale americana. Sostengo quindi qualcosa di più rispetto al lavoro ormai classico di Mearsheimer e Walt, nel senso che la politica mediorientale statunitense oggi non è più semplicemente influenzata dalla lobby israeliana, come hanno documentato questi studiosi americani, ma è strategicamente impostata e attuata da questa classe dirigente internazionalizzata, la quale oggi sta acquisendo un ruolo fondamentale anche in Europa, in primo luogo nel nostro Paese.
Come valuta fino a questo punto la politica medio-orientale del presidente statunitense Obama?
La risposta è implicita in quanto appena detto: il presidente Obama ha collocato nei posti chiave della sua amministrazione, quanto meno per quanto riguarda il Medio Oriente, uomini che fanno parte da tempo di quella classe dirigente, che si conferma quindi come un dato strutturale della politica estera statunitense. Si tratta di un elemento storicamente nuovo di cui è sorprendente che non si voglia prendere atto, nonostante gli addetti ai lavori, in particolare diplomatici, ne siano pienamente edotti. Il mio tentativo è di portare sul piano storico questa novità e valutarne le possibili, importanti implicazioni per il nostro futuro e per il futuro della pace in Medio Oriente.
Come vede l’attuale politica italiana in Vicino Oriente, e come crede dovrebbe svilupparsi in futuro?
Nel libro, per ragioni evidenti di spazio, non ho potuto dilungarmi su questo aspetto che, come lei giustamente ha inteso, è di grande interesse. Fin dai primi anni Ottanta ritengo che il nostro Paese sia stato uno degli obiettivi primari della politica israeliana, nel senso che era fondamentale riuscire a fare uscire l’Italia dalla sua ambiguità sulla questione palestinese, un’ambiguità alimentata ovviamente dalle preoccupazioni della Chiesa cattolica sullo status dei Luoghi Santi di Gerusalemme che si riflettevano sulle posizioni di autorevoli settori democristiani e socialisti.
La cosiddetta Seconda Repubblica ha rappresentato per Israele un’importante opportunità di cambiamento: dai primi anni Novanta, infatti, l’Italia ha assunto via via posizioni di più deciso sostegno allo Stato ebraico. Il culmine è certamente rappresentato dalla missione in Libano del 2007 e dal fatto che proprio di recente Israele ha chiesto ed ottenuto che il comando della missione resti sotto comando italiano, suscitando fra l’altro reazioni indispettite da parte del governo spagnolo. Ampi settori delle forze politiche di governo e di opposizione in Italia sistematicamente giustificano l’uso della forza da parte israeliana, in piena sintonia con le dichiarazioni di quel governo, dimostrando in tal modo che la politica italiana in Medio Oriente non è mai stata così vicina a Israele.
Nei nostri cieli, almeno a partire dal 2003, si svolgono esercitazioni militari dell’aviazione israeliana senza che se ne sia mai discusso in Parlamento, per citare un esempio assai concreto del nuovo tenore dei nostri rapporti con quel Paese.
Penso che tale orientamento non sia conforme ai nostri interessi come Paese mediterraneo e ai nostri tradizionali rapporti di buon vicinato con il mondo arabo.
La Turchia si sta avvicinando all’Iran, il quale gode del discreto sostegno della Russia e, in misura minore, della Cina. D’altro canto, paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, timorosi della potenza di Tehran, appaiono sempre più rivolti verso l’asse israelo-statunitense. Ritiene sia corretto dire che nella regione stia creandosi una polarizzazione Israele-Iran, dietro cui si può individuare la rivalità tra Washington e Mosca?
Non credo che la Russia abbia serie possibilità di contrastare lo strapotere israeliano in Medio Oriente, poiché penso che l’abbandono dell’Iraq nel 1991 e della Siria successivamente abbia segnato il crollo di qualsiasi credibilità sul ruolo di contrappeso di quel grande paese in Medio Oriente rispetto allo strapotere nordamericano.
Penso anche che le aperture filo-iraniane della Turchia siano molto più apparenti che reali poiché chi detta la musica in Turchia sono ancora le forze armate e sul loro allineamento filo-occidentale e filo-atlantico credo che, almeno per una generazione ancora, si possano nutrire pochi dubbi, oltre agli strettissimi rapporti con Israele che ho ampiamente documentato nel libro.
Penso poi che sia discutibile parlare di una polarizzazione Israele-Iran: l’Iran è attualmente del tutto isolato politicamente nella sua area geopolitica perché Israele conta oggi sul supporto dei Paesi del Golfo, sulla neutralità dell’Egitto, sul favore aperto della Giordania, sulla disgregazione di Iraq e Libano, l’indebolimento definitivo della Siria e lo sgretolamento progressivo del Pakistan. Non vi sono dubbi quindi che, nel caso di un’opzione offensiva contro l’Iran, questo paese potrebbe a mala pena contare su se stesso, nel senso che non escludo che vi siano già in atto attività destabilizzanti anche all’interno dell’establishment iraniano, soprattutto nei confronti delle forze armate.
Credo quindi che sia la Russia che la Cina non siano in grado di impedire un’eventuale opzione militare israeliana. Ma arrivo a dire che nemmeno gli Stati Uniti sono in grado oggi di impedirla, qualora lo Stato ebraico decidesse in tal senso.
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