Il preannunciato ritiro dei circa 2.000 militari statunitensi dallo scenario siriano  costituirebbe indubbiamente – se venisse realmente attuato, ma su ciò è lecito avere qualche prudente dubbio – un passaggio importante e positivo per il ristabilimento di una situazione accettabile in Siria.

In primo piano restano intanto i difficili rapporti fra Turchi e Curdi, un elemento imprescindibile delle dinamiche dell’area vicinorientale.

Il ministero della Difesa siriano ha nei giorni scorsi annunciato la ritirata di un convoglio di combattenti curdi dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo) dalla zona di Manbij (Siria settentrionale, a una trentina di chilometri dalla frontiera turca) contestualmente alla richiesta di intervento delle Forze Armate siriane in quella zona, allo scopo di prevenire un’avanzata turca. Altri casi del genere – peraltro, nel caso di Manbij, non c’è un’esplicita conferma da parte dell’YPG – potranno certamente verificarsi e danno l’idea della problematica situazione strategica sul campo: milizie armate curde – solidali con il terroristico PKK operante in territorio turco –  non più direttamente protette dagli Statunitensi (ma lo sono ancora dai Francesi) e che potrebbero chiedere il sostegno siriano in funzione antiturca; Turchi che intendono liquidare tali milizie, considerate non a torto come una pericolosissima spina nel fianco dedita al fiancheggiamento dei separatisti/terroristi del PKK.

La Siria dal canto suo mira giustamente al ristabilimento della propria sovranità, e a tal fine sembra disponibile alla concessione di un certo grado di autonomia alle popolazioni del Rojava, naturalmente previa riconoscimento dell’unità territoriale e nazionale siriana: in questo senso dovrà venir meno la pretesa costituzione (marzo 2016) della cosiddetta Federazione Democratica del Rojava – Siria del Nord.

La situazione è palesemente complicata e si mantiene particolarmente delicata: chi paventa un “doppio gioco” (fra Stati Uniti e Israele da una parte e Russia e Iran dall’altra) di Erdoğan e dei Turchi non sembra coglierne la complessità, e soprattutto il fatto che in mancanza di un accordo generale fra le parti – fra tutte le parti coinvolte – non si smantelleranno le cause profonde dell’instabilità e della guerra endemica.

Fra le parti coinvolte e che dovranno avere voce in capitolo, tuttavia, è bene precisare che non figurano gli Stati Uniti d’America, parte attiva nello scatenamento della guerra e superpotenza in realtà completamente  estranea all’area.

È auspicabile che si giunga ad un reciproco accordo fra Ankara e Damasco, nel pieno riconoscimento della sovranità dei due Stati e del principio della non ingerenza: un accordo che non sarà “contro i Curdi”, come pretendono i seminatori di zizzania, ma contro ogni forma di terrorismo nutrito ad arte per colpire Stati sovrani (Turchia, Siria, Iraq, Iran e quant’altro) e determinare la deliberatamente ricercata frammentazione dell’intera area.

A nostro avviso è pertanto profondamente sbagliato enfatizzare – e richiamare di continuo, allo scopo di attizzarla – la difficile problematica dei rapporti fra Curdi e Turchi, definendo in termini quasi paradigmatici una contrapposizione  che di per sé non avrebbe ragione di esistere. Per decenni i primi hanno realmente subito pesanti attacchi alla loro identità da parte della Repubblica kemalista (situazione ben diversa da quella in cui si erano trovati a vivere nel contesto ottomano); in seguito, a un progressivo riconoscimento da parte turca  della loro cultura, della loro lingua e della loro cultura si è accompagnata una presenza terroristica di frange curde spesso fiancheggiate ed eterodirette da chi ha sempre dimostrato l’intenzione e la capacità di incendiare la martoriata regione vicinorientale.

Infine, a indebolire l’ipotesi di una reale collaborazione fra le milizie guerrigliere dell’YPG e il governo di Damasco sta proprio il partenariato occidentale a favore delle prime. Ilhan Ahmed, una delle principali esponenti delle FDS (Forze Democratiche Siriane, che controllano l’YPG) si è recata il 21 dicembre scorso a Parigi, dove ha incontrato i consiglieri del Presidente francese Macron. In un’intervista ha confermato la subalternità dell’FDS agli Occidentali (ha ricordato esplicitamente “le nostre vittorie comuni con gli Occidentali”), esprimendo preoccupazione per l’asserita uscita di scena degli Stati Uniti e per l’eventuale ritiro dei Francesi. Invece, non ha detto nemmeno una parola su eventuali intese con Damasco – un argomento che dispiace a Parigi, come dispiace a Washington e a Tel Aviv, tanto per dire.


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Aldo Braccio ha collaborato con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” fin dal primo numero ed ha pubblicato diversi articoli sul relativo sito informatico. Le sue analisi riguardano prevalentemente la Turchia ed il mondo turcofono, temi sui quali ha tenuto relazioni al Master Mattei presso l'Università di Teramo e altrove. È autore dei saggi "La norma magica" (sui rapporti fra concezione del sacro, diritto e politica nell'antica Roma) e "Turchia ponte d’Eurasia" (sul ritorno del Paese della Mezzaluna sulla scena internazionale). Ha scritto diverse prefazioni ed ha pubblicato numerosi articoli su testate italiane ed estere. Ha preso parte all’VIII Forum italo-turco di Istanbul ed è stato più volte intervistato dalla radiotelevisione iraniana.