La crisi siriana sta entrando in una fase caldissima e, per la prima volta dal marzo 2011, sembra aver imboccato la strada del non ritorno verso un rischiosissimo crescendo di tensione militare. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia hanno già fatto sapere di aver preso seriamente in considerazione l’ipotesi di intervenire direttamente attraverso la Nato per colpire il regime del presidente Assad dopo che, a detta loro, sarebbe ricorso all’utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile.
Eppure, a cominciare dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, sono in molti a nutrire seri dubbi in merito alle recenti accuse mosse contro il governo siriano. Obama, Hollande e Cameron, difatti, non hanno atteso nemmeno la conclusione delle indagini della commissione Onu ospitata a Damasco che ha cominciato proprio oggi il suo lavoro al fine di verificare la presenza di residui chimici nelle aree dei recenti scontri e di stabilire le responsabilità dell’eventuale crimine di guerra.
I satelliti militari russi avrebbero individuato nei covi dei ribelli i luoghi di provenienza dei lanci di armi chimiche, notizia che pare confermata dal ritrovamento, alcuni giorni fa, di notevoli quantitativi di tali ordigni nei rifugi delle forze antigovernative da parte dell’esercito siriano e di alcuni hezbollah libanesi. Gli unici operatori sul campo a smentire la versione governativa sono gli attivisti di Medici senza frontiere, ong che afferma di aver curato alcune centinaia di persone che presentavano sintomi neurotossici senza, però, poter dimostrare la loro versione dei fatti.
Le minacce della Nato
«È troppo tardi», ha tuonato il presidente statunitense Barack Obama considerando ampiamente superata la linea rossa fissata un anno fa. Nel frattempo ha rinforzato la VI flotta della Marina nel Mediterraneo. Il presidente francese Hollande, da giorni molto attivo sul fronte interventista, ha ribadito che «è necessaria una reazione forte contro Assad». Il primo ministro britannico David Cameron ha ricordato come il suo Paese non si tirerà indietro di fronte ad una risposta «ormai necessaria» contro il governo siriano.
Insomma le trombe di guerra sono squillate ma pochissimi sembrano voler fare davvero i conti con la realtà del teatro di guerra che si andrebbe a comporre nel caso in cui le prime tre potenze nucleari occidentali dovessero intervenire in Siria. La scontata reazione della Russia, principale alleato di Assad, non si è fatta attendere: il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha esortato gli Stati Uniti ad evitare gli errori del passato con un esplicito riferimento al primo mandato Bush jr quando, con documentazioni poi rivelatesi inattendibili, aggredirono l’Iraq di Saddam Hussein accusato di detenere un intero arsenale di armi di distruzione di massa, in realtà mai rinvenuto. Tuttavia la reazione più dura è quella dell’Iran che, per voce del vice-capo di stato maggiore Massod Jazayeri, fa sapere che un attacco contro la Siria avrebbe «serie conseguenze per la Casa Bianca».
Secondo le prime indiscrezioni, le operazioni militari dovrebbero seguire le modalità già osservate in Libia. Allora l’operazione Odissey Dawn registrò un massiccio bombardamento aeronavale iniziale, seguito poco dopo dalle incursioni aeree dell’Alleanza contro obiettivi ritenuti sensibili. I danni furono incalcolabili e, come ormai sappiamo, interi quartieri di città importanti (soprattutto Sirte, Bengasi e Tripoli) furono rasi al suolo da centinaia di raid condotti dalla Nato. Per di più il supporto logistico fornito alle forze ribelli non teneva conto della massiccia presenza tra le loro file dei miliziani di al-Qaeda che, ai comandi del salafita Mokthar Belmokhtar, l’anno seguente avrebbero assaltato l’Algeria e il Mali costringendo la Francia ad un’intensiva operazione antiterrorismo.
Anche in Siria si calcola che la presenza islamista all’interno dell’Esercito libero siriano si attesti tra il 65% e l’85%. Sei brigate su otto stanno lottando per rimpiazzare l’ordinamento politico multiconfessionale governato da Assad con uno Stato fondato su un’interpretazione eterodossa e settaria della sharia sostenuto dall’Arabia Saudita. Tra queste organizzazioni, quelle più note e agguerrite sono il Movimento per lo Stato islamico di Siria-Iraq (Isis) e il Fronte al-Nusra, entrambe filiazioni della fazione irachena di al-Qaeda direttamente ai comandi di Ayman al-Zawahiri.
I fronti di guerra e il fattore-chiave iracheno
Fermo restando lo scenario politico odierno, i due fronti che si andrebbero componendo vedrebbero Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia schierate contro la Siria in un conflitto aeronavale sulle coste orientali del Mediterraneo. L’annuncio di Jazayeri lascia intendere che l’Iran interverrebbe immediatamente in difesa di Assad, anche sfruttando l’accordo di cooperazione militare concluso lo scorso ottobre dall’allora ministro della Difesa Ahman Vahidi con l’Iraq di al-Maliki chiudendo definitivamente uno dei capitoli più spinosi del secolo scorso, ossia quello del conflitto iracheno-iraniano.
A spingere l’Iraq verso l’Iran non è stato soltanto il ritiro delle ultime truppe occidentali dal Paese ma anche l’atteggiamento aggressivo della Turchia che nel corso degli ultimi anni ha più volte violato la sovranità aerea del vicino per intervenire contro i curdi iracheni. A tal proposito, stando all’annuncio del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu, Ankara ha già fatto sapere di volere far parte di qualsiasi coalizione militare dovesse formarsi contro la Siria. Gli interessi turchi nel Medio Oriente arabo sono ancora molto forti e il supporto garantito al sedicente governo siriano in esilio indica che difficilmente Erdoğan si farà condizionare dal dissenso interno espresso dai partiti kemalisti.
Sebbene con interessi divergenti, alla Turchia si affiancherebbero anche le monarchie del Golfo a cominciare dall’Arabia Saudita, storicamente impegnata a finanziare il jihadismo salafita con l’obiettivo di eliminare l’Iran sciita, considerato dalla setta wahhabita alla stregua di “un tempio dell’eresia” al pari dei Paesi kāfir, ossia “infedeli”.
Da valutare il ruolo di Israele, a lungo diviso al suo interno da un’aspra polemica tra interventisti e neutralisti, ma senz’altro interessato ad eliminare Assad per isolare l’Iran in Medio Oriente. Lo scorso 5 maggio l’aviazione di Tel Aviv aveva colpito un deposito militare nel centro di Damasco con un raid aereo improvviso, mentre lo scorso 5 luglio i caccia israeliani hanno attaccato un altro deposito presso il porto di Latakia nel presumibile tentativo di distruggere alcuni missili Yakhont di produzione russa. Recentemente Netanyahu si è unito al coro di Obama e Hollande, puntando il dito contro Assad e rimarcando i timori che l’Iran possa ricavare prestigio e credibilità internazionale dalla crisi siriana.
Sullo sfondo del fronte pro-Assad rimarrebbe presumibilmente invariata proprio la posizione del Cremlino, primo fornitore militare della Siria sin dagli anni Settanta. I sistemi missilistici antiaerei S300 garantiti alla Siria lo scorso maggio rappresenterebbero uno dei principali ostacoli per l’aviazione della Nato che, diversamente dalla guerra in Libia, stavolta sarebbe costretta a ricorrere anche ai caccia F22 oltre che ai tradizionali F16. Le caratteristiche stealth dell’F22 aumenterebbero le capacità di penetrazione nello spazio aereo siriano ma non garantirebbero alcuna certezza di successo in battaglia. Ecco che si farebbe largo, dunque, l’asso nella manica dell’aviazione statunitense, il terrificante (e costosissimo) bombardiere strategico B-2, già utilizzato per lo sfondamento nelle prime fasi delle operazioni Allied Forces (Serbia), Enduring Freedom (Afghanistan), Iraqi Freedom (Iraq) e Odissey Dawn (Libia).
I grandi passi in avanti fatti dall’industria militare iraniana con la presentazione del nuovo drone Hamaseh lo scorso 9 maggio si sposano alle capacità aeree difensive messe in evidenza lo scorso 13 maggio, quando un caccia della Repubblica Islamica ha intercettato e seguito lungo gran parte del suo percorso un drone statunitense in volo sopra le acque del Golfo Persico. Risulterebbero pressoché inutili, perciò, i celebri velivoli automatici finora ampiamente utilizzati dall’amministrazione Obama con risultati molto criticati per le numerose vittime civili provocate in Pakistan, Afghanistan e Yemen tra il 2010 e il 2013.
Ipotizzando che Maliki garantisca la sua collaborazione “esterna” all’Iran (anzitutto in funzione antisaudita e antiturca), Tehran potrebbe inoltre dispiegare un’enorme forza terrestre principalmente composta dai Pasdaran ed una consistente forza navale nel caso in cui l’Arabia Saudita non si limitasse alla sola concessione delle sue installazioni alla Nato, ma intervenisse attivamente nel conflitto. In quella circostanza le basi navali iraniane di Bandar Abbas, Bandar Khomeini e Bandar Lengeh sarebbero pronte ad entrare in azione mobilitando almeno diecimila unità della Marina e circa cinquemila fanti di marina dei Pasdaran. Solida resterebbe la capacità di appoggio sul Libano dove Hezbollah, già presente in Siria, assicura assoluta fedeltà alla causa sciita.
Più distanti dallo scenario bellico, e non solo geograficamente, resterebbero la Cina – che negli ultimi anni ha già fornito alla Siria missili antinave CSS-C-3, missili anticarro HJ-8 e lanciamissili multipli – e la Corea del Nord, che già ha assicurato all’Esercito di Assad diversi missili balistici tattici SS21 (Scarab) e alcuni missili balistici a medio raggio Rodong-1.
Conseguenze
Il pericoloso intreccio di interessi contrapposti spingerebbe l’intera regione mediorientale in una spirale di conflitti dalle conseguenze assolutamente imprevedibili ma senz’altro catastrofiche in primo luogo per le popolazioni civili e in secondo luogo per l’elevata probabilità che lo Stretto di Hormuz si paralizzi e che l’intero traffico commerciale proveniente dal Golfo sia seriamente compromesso dalle operazioni belliche con ingenti danni economici per tutto il mercato mondiale.
La presenza di numerose brigate salafite nel contesto siriano deve inoltre preoccupare anche l’Europa dal punto di vista della sicurezza collettiva e della legalità. La deposizione di Morsi in Egitto e la repressione della Fratellanza musulmana non hanno che scalfito il rischio della proliferazione dell’islamismo, aumentandone le proporzioni nel lungo termine, allorquando gli interessi sauditi dietro il golpe del generale al-Sisi andranno ad appalesarsi con maggiore nitidezza.
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