Passano in secondo piano quest’anno per gli USA i vertici internazionali APEC e ASEAN, tenuti lo scorso ottobre rispettivamente a Bali in Indonesia e a Bandar Seri Begawan in Brunei, in un continente come quello asiatico nel quale i nordamericani hanno sempre avuto un ruolo di primissimo piano. Il braccio di ferro tra democratici e repubblicani, riguardante la spinosa questione dello shutdown, la crisi siriana e i nuovi rapporti con l’Iran di Rohani, hanno fatto sì che l’amministrazione Obama dedicasse minor attenzione ai due summit, rinunciando a un’importante agenda fitta di incontri.

Agli appuntamenti, infatti, non si è presentato il presidente Barack Obama, ma è stato inviato il Segretario di Stato John Kerry. Una tale situazione ha dato modo e possibilità alla Cina del presidente Xi Jinping di rendersi assoluta protagonista: approfittando dell’assenza statunitense, difatti, è riuscita a rafforzare i legami con i Paesi dell’area asiatica e a stringere nuovi accordi commerciali, in primis con l’Indonesia dell’omologo Susilo Bambang Yodhoyono, firmando una dichiarazione congiunta con cui far raggiungere quota 80 miliardi di dollari il commercio bilaterale, poi anche con la Malesia. Gli Stati Uniti, invece, avevano pianificato una precisa strategia da applicare in Asia, e cioè il rafforzamento della Trans-Pacific Partnership, un accordo commerciale con i Paesi dell’area, con l’obiettivo di creare una zona di libero scambio, contrastando in tal modo la crescente influenza di Pechino.

Se tutto ciò comunque giova alla Cina, bisogna pur ricordare che tra le due super potenze c’è anche della tensione poiché il governo cinese teme che l’amministrazione Obama non riesca a onorare i debiti contratti con la stessa.

Sono infatti di questi giorni le nette parole dell’agenzia cinese Xinhua, secondo la quale ci sarebbe bisogno di una nuova valuta di riserva globale e, inoltre, sarebbe anche opportuna una “de-americanizzazione” della finanza mondiale, dopo avere citato la tendenza degli americani a infiltrarsi negli affari dei governi stranieri per mantenere il controllo su tutto il resto del pianeta. Durissima anche la posizione del Vice Ministro cinese: “gli Stati Uniti hanno una grande quantità di investimenti diretti in Cina e la Cina ha un gran numero di buoni del tesoro USA. Gli Stati Uniti sono chiaramente consapevoli delle preoccupazioni della Cina circa la situazione di stallo finanziario di Washington”.

È evidente che il governo di Pechino ha paura che gli USA falliscano. Infatti, i cinesi avrebbero circa 1280 miliardi di dollari in titoli di Stato USA, secondo un dato del luglio 2013. La Cina ha prestato immense cifre al debitore nordamericano che è anche il suo massimo cliente, in quanto lo ha finanziato perché acquistasse le sue merci e, in cambio, lucrava interessi. Purtroppo potrebbe esserci il rischio che il governo Obama non riesca più ad onorarli. Sarebbe in tal caso una vera sciagura. Un fallimento potrebbe dare un colpo mortale alla già preoccupante situazione economica interna del gigante asiatico e molto probabilmente anche a quella mondiale .

C’è da dire che l’assenza del presidente americano, oltre al fatto di aver dato modo di consolidare la presenza del governo di Pechino con nuovi accordi commerciali, proposte di cooperazione in materia di sicurezza e ulteriori investimenti, ha permesso anche al presidente Xi Jinping di paventare la creazione di una banca regionale per le infrastrutture nei Paesi ASEAN, dimostrando di avere idee chiare e progetti concreti sui quali possono contare i vari Paesi dell’area asiatica. Sarà difficile per tali nazioni resistere a questo genere di “lusinghe” in un contesto in cui l’ormai famoso soft power “a stelle e strisce” arranca.

Altro attore importante di questi vertici è stato anche il Giappone di Shizo Abe, il quale in qualche modo ha cercato di porre freno alle mosse di Xi Jinping. Il presidente nipponico, infatti, ha provato a colmare il vuoto lasciato dagli statunitensi, cercando di proporre aiuti e protezioni alla nazioni coinvolte nelle dispute marittime: pare, quindi, che si sia concretizzata una sorta di contesa nippo-cinese per la conquista di consensi e potere in Asia.

Purtroppo per Obama è un altro passo falso, da aggiungere alla smacco ricevuto dai russi sulla questione siriana, non dimenticando nemmeno lo shutdown e i problemi legati al debito pubblico: l’immagine del Paese risulta compromessa. Non resta che rimediare in qualche modo. In tal senso il segretario di Stato Kerry ha annunciato un altro tour “riparatore” in Malesia, Filippine e Brunei, per cercar di recuperare il terreno perduto: Cina, Russia e Giappone hanno acquisito attualmente un bel vantaggio e la corsa per gli yankee si fa dura.

 

*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio


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