Martino Conserva e Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2005

 
Il nome di Lev Nikolaevič Gumilëv, al quale Nursultan Nazarbaev ha voluto intitolare la nuova Università di Astana, è indissolubilmente legato a quella corrente eurasiatista che si sviluppò tra le file degli intellettuali russi emigrati nel periodo interbellico ed ebbe in Trubeckoj, Vernadskij e Savickij i suoi esponenti più illustri. Nato quasi alla vigilia della rivoluzione sovietica, nel 1912, se ne andò proprio quando l’Unione Sovietica si era appena frantumata, nel 1992. Storico, geografo, filosofo, non fu un geopolitico nel senso stretto del termine; ma a chi lo chiamava “l’ultimo degli eurasiatisti” egli non si opponeva, anzi avvalorava tale definizione. Oggi, più che l’ultimo degli eurasiatisti, potrebbe essere considerato il tramite fra l’eurasiatismo interbellico e il neoeurasiatismo rappresentato da Aleksandr Dugin.

Durante la sua lunga e tormentata esistenza egli conobbe più volte la detenzione e l’internamento nei campi di prigionia sovietici, non per qualche colpa specifica e obiettiva, quanto per il cognome che portava, poiché suo padre Nikolaj (il fondatore del movimento acmeista, marito della poetessa Anna Achmatova) era stato fucilato durante le purghe del 1921. Anche la sua carriera universitaria, nonostante le notevoli qualità intellettuali da lui dimostrate, conobbe numerosi ostacoli; le sue opere furono sempre guardate con sospetto e diffidenza, quando non denigrate apertamente. Nemmeno oggi si può dire, purtroppo, che il suo valore venga pienamente riconosciuto; causa non ultima di ciò, il fatto che la sua opera principale, Etnogenesi e biosfera della terra, contiene una valutazione della realtà ebraica non conforme agli schemi conformistici e politicamente corretti.

Vale la pena di indicare brevemente i caratteri principali della teoria gumileviana. Secondo le sue teorie, ogni ethnos (che per comodità potremmo identificare come popolo o civiltà) è un’entità che, al pari di ogni essere vivente, conosce varie fasi: nascita, ascesa, declino e morte. Aspetto caratteristico di ogni ethnos è la passionarietà, l’energia motrice che ne determina le varie fasi cicliche.

Concentrando la propria indagine sulle caratteristiche della civiltà russa, Gumilëv giudica positivo l’apporto che ad essa è stato recato dalla dominazione tatara, che in definitiva la ha rinvigorita e le ha permesso di sopravvivere. “Ai nostri fratelli, i Turchi dell’URSS”, “Al fraterno popolo mongolo”: queste dediche, da lui poste in epigrafe ad alcuni dei suoi libri, sono esplicite ed emblematiche a tale proposito. In ogni caso, riconoscere il fondamentale carattere eurasiatico e imperiale dell’identità russa comporta per lui il netto rifiuto dell’Occidente, col suo carattere individualista e cosmopolita e col suo sistema di valori universalista.

Le conseguenze di carattere geopolitico implicite in questa opposizione sono opportunamente evidenziate dagli autori del saggio in esame. “L’Eurasia – essi scrivono – rappresenta un esempio ricchissimo di sviluppo etnogenetico e culturo-genetico originale e fecondo, che costringe ad abbandonare l’ottica unipolare di osservazione della storia mondiale (quella che gli analisti di scuola anglosassone frequentemente riassumono nell’espressione The West and the Rest, l’Occidente e “tutti gli altri”) a favore di un’ottica multipolare. L’Eurasia settentrionale e orientale riveste in questa prospettiva un significato particolare, in quanto origine di fondamentali processi di sviluppo di civiltà completamente alternativi a quelli dell’Occidente”. In tal modo, proseguono i due autori, “l’opera di Gumilëv rappresenta in un certo senso una conferma e al tempo stesso un approfondimento della celebre tesi di Halford Mackinder sull’asse geopolitico della storia; questo asse ha ora un suo contenuto storico concreto”.

Nel nostro paese il nome di Lev Gumilëv è ancor oggi pressoché sconosciuto: a parte qualche brano pubblicato da “Eurasia”, l’unica sua opera tradotta in italiano, Gli Unni (apparsa nel 1978), è irreperibile ormai da lungo tempo. Deve dunque essere accolta favorevolmente la pubblicazione di questo saggio di Martino Conserva e Vadim Levant, che, oltre a presentare in maniera chiara ed imparziale l’opera del grande pensatore eurasiatista, costituisce un utile ed efficace avvio per uno studio più approfondito, poiché reca in appendice un’accurata bibliografia.


 
 


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