Mentre la quasi totalità delle gazzette della classe dominante italiana (e non solo italiana) sono impegnate a sferrare attacchi durissimi al Cavaliere, reo di aver fatto cadere il governo tecnico imposto al nostro Paese dalla Bce, anche in Italia, come in Grecia, si sta diffondendo un forte sentimento antitedesco (e non solo tra i sostenitori della Lega e del Pdl). Tutto ciò ha spinto il ministro degli Esteri della Germania, Guido Westerwelle, a dire che non tollererà che il suo Paese «diventi oggetto di una campagna populista». E la stessa Merkel, smentendo proprio Westerwelle che aveva però precisato che la Germania non ha alcuna intenzione di intromettersi nelle prossime elezioni italiane, ha dichiarato esplicitamente di sostenere Mario Monti e di essere convinta che «gli italiani voteranno in modo tale da garantire che l’Italia resti sul cammino giusto». (1) Parole che avranno probabilmente solo l’effetto di rafforzare il “fronte antitedesco”.
In ogni caso, è indubbio che affermare che né la Germania né l’Europa sono in alcun modo responsabili delle attuali difficoltà del nostro Paese, significa negare l’evidenza, indipendentemente dai tradizionali e gravi difetti del sistema sociale ed economico italiano, che hanno naturalmente ampliato gli effetti negativi della crisi finanziaria del 2008 e favorito ogni sorta di speculazione a danno dell’Italia. Non si può infatti dimenticare che il governo tecnico voluto dalla Unione Europea (un governo, si badi bene, del tutto sottomesso alle scelte geopolitiche di Washington) ha fatto macelleria sociale, “tagliando” scuola, pensioni e sanità, e spinto l’Italia nel baratro della recessione, della deindustrializzazione e dell’impoverimento dei ceti medi e popolari, con il consenso di una sinistra che, avendo rinnegato tutti i propri principi ispiratori, è la maggiore responsabile della nuova “discesa in campo” del Cavaliere.
Né è irrilevante che alla fine del mese di luglio del 2011, allorché lo spread cominciava a essere un problema per l’Italia, il Financial Times abbia rivelato che la Deutsche Bank aveva ridotto di 7 miliardi di euro il suo investimento in titoli pubblici italiani, promuovendo la speculazione internazionale contro il nostro debito pubblico. Un comportamento che indusse Prodi ad affermare: «E’ la dimostrazione di una mancanza di solidarietà che porta al suicidio anche per la Germania. Significa la fine di ogni legame di solidarietà e significa obbligare tutti a giocare in difesa». (2) E si deve pure tener conto che è proprio questa banca tedesca ad aver messo l’accento sulla necessità di “mettere sul mercato” il nostro patrimonio pubblico, compreso quel che rimane del nostro settore strategico. (3)
Il che, in verità, non sorprende più di tanto, dato che anche la Germania trasse profitto dalla nota operazione di svendita di gran parte delle nostre imprese strategiche all’inizio degli anni Novanta (anni in cui – e lo si tenga sempre ben presente – su consiglio di Ciampi, Amato e Draghi si internazionalizzò il nostro debito pubblico, ossia si consegnò lo Stato italiano nelle mani dei “mercati”). Anche allora le banche internazionali prima colpirono il nostro Paese, con l’attacco alla lira, e poi si offrirono di soccorrerlo «con la ben remunerata assistenza, prestata alla vendita delle partecipazioni statali e alla gestione di una larga parte del risparmio italiano». (4) Decisivo però anche allora fu il contesto geopolitico mondiale, del tutto cambiato dopo il crollo del Muro del Berlino e la fine dell’Unione Sovietica.
Perciò, è logico che non ci si debba limitare ad esaminare la “reazione” della Germania alla crisi di Eurolandia, ma è necessario prendere in considerazione l’azione strategica dei gruppi che controllano i “mercati” (come la Goldman Sachs e le agenzie di rating) che svolgono un ruolo di fondamentale importanza nella ridefinizione degli equilibri politici ed economici del mondo occidentale. Vale a dire che è necessario prendere in esame “la questione tedesca” al di là degli aspetti contingenti che pure caratterizzano il comportamento dei “mercati”, ma che non possono non essere, per così dire, se non “fenomeni di superficie”, non fosse altro perché presuppongono un sistema di potere che garantisca ai capitali la massima libertà di movimento. Un sistema che non a caso è ancora imperniato sull’egemonia del petrodollaro. Ovverosia su quella supremazia geopolitica degli Stati Uniti che la riunificazione della Germania avvenuta nel 1990, cioè solo un anno dopo la caduta del Muro, avrebbe potuto mettere in discussione, giacché con il crollo dell’Unione Sovietica si era anche venuta a creare una situazione che avrebbe potuto permettere all’Europa di far leva proprio su una forte Germania per sganciarsi, sia pure gradualmente e con la “giusta prudenza”, dagli Stati Uniti.
Invece, com’è noto, l’europeismo degli anni Novanta, anche se apparentemente mirava a consolidare le istituzioni della comunità europea, servì perlopiù a mascherare una politica che aveva di mira non solo il rafforzamento della Nato, che non aveva più ragion d’essere dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, ma anche la costruzione di una Unione Europea atlantista, di modo da poter saldare definitivamente la “Grande Germania” all’Atlantico. In questo senso, la stessa introduzione dell’”europanzer” fu il prezzo che i Paesi europei furono disposti a pagare pur di cercare di risolvere la ”questione tedesca”, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale si riproponeva in forme indubbiamente diverse, ma incutendo ancora timore nei “circoli atlantisti”. Un timore destinato ad aumentare negli anni seguenti, allorché la Russia apparve nuovamente sulla scena geopolitica mondiale da protagonista. Né la Germania contrastò in alcun modo questa politica, preoccupandosi soltanto di crescere economicamente. Anzi, essendo riuscita a risolvere il non facile problema della riunificazione, ha cercato di trarre il massimo profitto dalla fine dell’unipolarismo statunitense anche a spese dei membri più deboli e meno “efficienti” dell’Unione Europea.
Certamente non è solo l’ “europanzer” che ha consentito alla Germania di aver un enorme attivo della bilancia commerciale, ma anche la nota efficienza e solidità dell’apparato produttivo tedesco. E tuttavia come sostiene Luciano Gallino si tratta di una efficienza e di una solidità pagate assai caramente dai ceti meno abbienti. La Germania, contrariamente a quanto si è soliti immaginare, con un indice di diseguaglianza economica astronomico, è «un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della della metà del salario mediano». (5). E questo aiuta a spiegare per quale motivo molti tedeschi non siano affatto entusiasti dell’euro, ma addirittura siano convinti di non aver ricevuto alcun vantaggio dalla moneta unica, nonostante che le cifre dimostrino l’opposto, e di conseguenza ritengano che sarebbe preferibile tornare al marco. (6).
Ciononostante, la logica mercantilista difesa dalla Germania e dalle autorità della Unione Europea si è imposta a tutta l’Eurozona come l’unica possibile. Una logica che si fonda in primo luogo sul fatto che la Germania è al tempo stesso una grande potenza geoeconomica ed un nano geopolitico. Si tratta di una “anomalia” che, in un certo senso, è causa ed effetto della debolezza politica della stessa Unione Europea, dato che quest’ultima non è un vero soggetto geopolitico, pur essendo, almeno “sulla carta”, anch’essa una potenza geoeconomica. Ed è questa differenza tra potenza politica e potenza economica che non solo facilita la speculazione internazionale, ma che rende possibile ai “mercati” (ossia agli “strateghi del capitale”) di fare una pressione fortissima sull’Eurozona perché la Germania intervenga a garanzia dei debiti sovrani dei Paesi europei e “diluisca” la propria potenza economica nel “mercato globale”, anziché usarla per togliere l’Europa dalla morsa dei “mercati” e trasformarla in un autentico polo geopolitico.
In questo senso, i “mercati” sembrano avere, come si suol dire, il coltello dalla parte del manico: se la politica di rigore continua, si alimenterà la speculazione finanziaria, anziché gli investimenti produttivi, rendendo sempre più difficile una ripresa dell’economia reale dell’Eurozona, di modo che non si potrà impedire che la recessione riguardi la stessa Germania, indebolendola e rendendola più vulnerabile alle decisioni dei “mercati”. Sicché, non è strano che vi sia chi sostiene che vi è una sola strada da percorrere, stretta ma obbligata, per uscire dalla crisi. Prima o poi cioè la Germania dovrà prendere atto che il rigore eccessivo contraddice i suoi obiettivi: fa salire il debito greco invece di farlo scendere e fa arrivare la recessione anche in Germania. (7) Analisi però, quest’ultima, in un certo senso semplicistica, al punto da ritenere possibile che sotto la spinta dei “mercati” la Germania non abbandonerà la linea del rigore, ma potrà contribuire a far carburare una crescita sostenibile e stimolare gli investimenti – come se i diversi attori geopolitici e i diversi soggetti sociali avessero tutti gli stessi interessi e la logica del capitalismo finanziario coincidesse “im-mediatamente” con quella dell’economia reale. E’ molto più probabile invece che una soluzione di compromesso come questa equivalga ad aggirare l’ostacolo, senza risolvere né la “questione tedesca” né quella di un’Europa priva di reale sovranità politica, militare e monetaria.
Sotto questo profilo, è non si può dare a torto a quegli studiosi come Luciano Gallino o Stefano Sylos Labini che mettono l’accento sulla necessità di una radicale riforma del sistema finanziario internazionale se si vuole salvare l’economia reale, dato che i “mercati”, con le liberalizzazioni volute dalla Thatcher e da Reagan, possono con facilità «innescare dei processi cumulativi che si autoalimentano» e ovviamente, allorché c’è crisi, hanno tutto l’interesse a spingere l’economia verso la recessione. (8) D’altra parte, benché importante, non è decisivo rendersi conto che è indispensabile trasformare la Bce in una vera Banca centrale e federare il debito degli Stati dell’Eurozona, poiché è indiscutibile che una drastica riduzione del debito pubblico da qui ai prossimi venti anni, come concordato con la Germania e con le autorità dell’Unione europea, farebbe perdere agli Stati europei «qualunque autonomia sulle politiche di bilancio compromettendo la possibilità di attuare politiche economiche espansive». (9) Decisivo è piuttosto rendersi conto che il “nodo” da sciogliere non è solo economico ma anche e soprattutto geopolitico.
Se si sostiene che occorre una nuova Bretton Woods, nel segno di Keynes e si afferma esplicitamente che una nuova Bretton Woods non sarebbe una riforma ma addirittura una rivoluzione (10), come non vedere le conseguenze geopolitiche di questa affermazione? Del resto, non è un caso che, dopo la crisi del 1929 e il fallimento, nel 1931, della Creditanstalt (una banca austriaca, fondata dai Rothschild), che originò il tracollo del sistema finanziario internazionale, sia stata necessaria una guerra mondiale per giungere agli accordi di Bretton Woods, nel luglio del 1944. E non si può nemmeno negare che se oggi l’Europa si trova nella morsa dei “mercati” ciò dipende da precise scelte strategiche. Insomma, se ci si concentra solo sulla Germania, considerandola l’unica responsabile della crisi di Eurolandia, si privilegia solo una prospettiva economicistica – che, tra l’altro, è la prospettiva che condiziona negativamente la stessa Germania. Una prospettiva che non permette di individuare nella “volontà di potenza”atlantista, che articola la logica mercantilistica, il vero nemico dell’Europa. Una volontà che purtroppo ha salde radici su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ecco perché, anche ammesso e non concesso che la Germania possa accettare, magari riservandosi un sorta di diritto di veto, che la Bce diventi “prestatore di ultima istanza” e correre così il rischio di far aumentare l’inflazione e di indebolire l’euro rispetto al dollaro, si rischierebbe di attribuire maggiore potere proprio a quelle autorità dell’Unione Europea che sono custodi dell’ortodossia atlantista e al servizio di quelle “gruppi di potere che controllano gli stessi “mercati”.
Scommettere su un’Europa politica e soprattutto su una Difesa europea, creando quattro dipartimenti centrali: Affari esteri, Tesoro, Difesa e Giustizia (11), quindi non significherebbe automaticamente risolvere la “questione tedesca”, rendendo il continente europeo indipendente dalla politica d’Oltreoceano e liberando risorse per lo sviluppo. In altre parole, non ci si può illudere di far fronte alla pre-potenza dei “mercati”, ridisegnando l’architettura istituzionale della Unione Europea, se non si è disposti a mutare l’orientamento geopolitico del continente europeo, benché si debba riconoscere che la creazione di una forte struttura politica europea potrebbe essere usata per mettere fine alla sovranità dei “mercati”(naturalmente anche sfruttando il fatto che vi sono più centri di potere in lotta tra di loro). Comunque sia, se è innegabile che senza una forte Germania, è impossibile che l’Europa non sia governata, direttamente o indirettamente, dai “mercati”, è pure vero che, senza un’Europa politicamente forte, è impossibile che la Germania, prima o poi, non si imbatta nei propri limiti. Epperò l’assenza di iniziativa strategica e geopolitica di una Germania che punta tutto sulla sua potenza economica, a spese di altri Paesi membri dell’Eurozona, unita all’aggressività di “mercati sovrani”, non può che rafforzare gli interessi, politici ed economici, dell’oligarchia atlantista a scapito di quelli della maggior parte dei cittadini europei, tedeschi compresi. Di conseguenza, pare ovvio che i “mercati” avrebbero tutto da guadagnare da una soluzione di compromesso, profittando anche della mancanza in Europa di vere forze politiche antagoniste, nonché del nuovo corso atlantista e neocolonialista della Francia. In tal caso però, anziché aspettarsi di uscire dalla crisi, si dovrebbe essere consapevoli che con ogni probabilità la crisi dell’Eurozona si aggraverebbe ulteriormente e diventerebbe sempre più complicato “governarla”. D’altronde, sono già parecchi i segni che indicano che il panorama europeo il prossimo anno sarà caratterizzato da conflitti sociali e reazioni “populiste” che non sarà facile “istituzionalizzare”.
Sarebbe tuttavia ingenuo credere che le potenze emergenti (in particolare il gigante cinese) e i nuovi attori geopolitici, come i Brics, la Sco e l’Unione Eurasiatica, non siano in grado di incidere profondamente sugli attuali equilibri internazionali, già fortemente alterati a causa del declino relativo degli Stati Uniti. A questo proposito, è invece significativo che proprio la Germania sia lo Stato europeo che più ha saputo sfruttare questo mutamento della scena mondiale. Non è affatto assurdo dunque ritenere che la “chiave” per risolvere la ”questione tedesca” e quella di un’Europa nella morsa dei “mercati” (due questioni che non sono che due facce di un’unica medaglia) vada ricercata prendendo in considerazione non solo le esigenze del mondo occidentale, ma anche la necessità di ristrutturare l’attuale sistema finanziario internazionale (debiti sovrani ed euro inclusi) alla luce di un paradigma geopolitico multipolare. E’ evidente, del resto, che perfino una nuova Bretton Woods, se non tenesse conto dei mutamenti del sistema geopolitico globale, sarebbe certamente destinata a fallire.
2.http://www.corriere.it/economia/11_luglio_28/prodi-deutsche-bank_02a8aac8-b914-11e0-a8dd-ced22f738d7a.shtml?fr=correlati
4.http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_29/mucchetti_d6d4bd28-b9a0-11e0-9ceb-ac21c519f82b.shtml
8.http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2012/09/getPDFarticolo.pdf
9.http://temi.repubblica.it/micromega-online/europa-unita-contro-il-fiscal-compact/?printpage=undefined
10.Vedi nota 8.
11.Vedi nota 9.
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