Fonte: “Conflitti e Strategie”
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Per comprendere l’importanza che gli americani assegnano all’area dei cosiddetti “Balcani Globali”, quella che va dallo stretto di Suez allo Xinijang, nella guerra geopolitica per la dominazione mondiale, occorre riprendere le riflessioni di Brzezinski tratte dal suo libro del 2007 L’Ultima chance. Secondo il politologo statunitense è qui che si gioca la partita più importante della presente fase multipolare ed è in questa parte di Mondo che le potenze costruiranno quel vantaggio geostrategico indispensabile a proiettarle verso un futuro di predominanza globale.
Ma per poter “agganciare” l’Epoca e tracciare una prospettiva storico-geografica confacente alla loro idea di “umanità” stabilizzata (che non vuol certo dire pacificata, quanto piuttosto “orientabile” verso determinate direttrici di sviluppo politico e sociale) le superpotenze, con vocazione suprematistica devono essere in grado di incastrare i singoli pezzi del mosaico geopolitico per farli aderire al loro disegno egemonico volto alla predominanza.
Per fare ciò occorre, in primo luogo, avere il controllo degli Stati Pivot dell’area in questione, impedendo, al contempo, che questi assurgano al ruolo di potenze regionali autonome. In tal senso, diviene prioritario l’obiettivo di ostacolare l’ascesa di quelle leadership nazionalistiche autoctone che coltivano valori distanti da quelli occidentali e con le quali l’arma del condizionamento culturale è quasi del tutto spuntata. Quali sono gli Stati in grado, nel medio e lungo periodo, di approfondire le loro caratteristiche di paesi-guida su questa “placca” geografica in ribollimento? Iran e Turchia, per quanto riguarda le popolazioni musulmane, la Russia e la Cina sulle ex-Repubbliche sovietiche di Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan ecc. ecc.. Queste ultime risentono, al contempo, sia dei richiami politico-economici dei potenti vicini asiatici ed euroasiatici ma risultano altresì sensibili ai legami religiosi con le potenze che adottano un rivestimento confessionale dei propri assetti statali. In sostanza, nei piani statunitensi occorrerà muoversi utilizzando due approcci dirimenti ed ugualmente confacenti ad uno stesso obiettivo egemonico: con le azioni dirette e vigorose sulle potenze che avanzano velleità di “copertura” egemonica regionale (vedi l’Iran e, probabilmente, un giorno anche la Turchia se essa persevererà nella sua “deriva” antioccidentale) oppure, indirettamente, servendosi delle manovre destabilizzanti nei vari “ventri molli” presenti nello spazio geografico asiatico e mediorientale (vedi l’Afghanistan, l’Iraq e la caterva di province ribelli a partire dallo Xinijang, ecc. ecc.) per interrompere le traiettorie di “allungamento” geopolitico di Stati il cui ordine non è alterabile, per il momento, con iniziative “militari” prorompenti (Russia e Cina). Ovviamente, lo sbilanciamento dei rapporti di forza in un senso più o meno favorevole agli Usa o ai suoi competitors geopolitici dipenderà anche dal ruolo che intenderanno giocare gli altri giganti di questo versante del globo come l’India (attualmente più in sintonia con gli Usa dopo le concessioni sul nucleare) ed il Pakistan (dove la presenza americana è molto forte ma molti forti sono anche i collegamenti con la Cina).
Per aiutarci visivamente ad inquadrare la scacchiera laddove si disputano attualmente le sorti della diatriba geopolitica mondiale riportiamo la stessa cartina presente nel testo di Brzezinski:
Nella didascalia associata alla figura Brzezinski riporta queste informazioni: “I Balcani Globali. Estesi dal canale di Suez in Egitto alla regione dello Xinijiang in Cina, da Nord del Kazakistan al Mare arabico, i Balcani Globali sono oggi lo specchio dei Balcani tradizionali del XIX e XX secolo, nel senso di instabilità politica e dell’importanza geopolitica che causano rivalità all’estero. I Balcani contemporanei, racchiusi nel cerchio qui sopra, sono abitati all’incirca da 500 mln di persone, sono afflitti da instabilità interna derivata da tensioni etniche e religiose, povertà e governi autoritari. I conflitti etnici in quest’area coinvolgono 5,5 mln di ebrei israeliani e 5 mln di arabi palestinesi; 25 mln di kurdi, sul territorio suddiviso tra Turchia, Iraq, e Siria; e l’India e il Pakistan nella disputa per il Kashmir, oltre a numerosi potenziali conflitti in Iran e Pakistan”.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che quest’area è strategica anche dal punto di vista economico perché è ivi concentrata la gran parte delle risorse mondiali di petrolio e gas; va da sé quindi che chi controllerà gli approvvigionamenti, le prospezioni e i commerci avrà l’opportunità di convogliare, con sempre maggiore capacità penetrativa, la propria visione politica ed economica del mondo, imponendo agli altri il proprio modello di crescita e di sviluppo. Tanto è vera siffatta affermazione che lo stesso Brzezinski attribuisce a Clinton una delle intuizioni più grandi dell’epoca, quella di aver favorito la costruzione dell’oleodotto, sponsorizzato dagli Usa, da Baku a Ceyhan, al fine bypassare la Russia e togliere ad essa il monopolio del transito di gas verso l’Occidente.
Ma l’aspetto più interessante dell’Analisi di Brezinski ci riporta agli sforzi profusi dagli Usa per convincere gli altri partner occidentali ad avanzare celermente sulle sanzioni all’Iran come risposta alle sue iniziative nucleari. Stabilito che questa ossessione della bomba musulmana è solo un diversivo per mobilitare la pubblica opinione su un pericolo più “concreto” e tangibile – rispetto al quale occorre opzionare un intervento militare sempre più imminente (ma, come ammette lo stesso Brezinski, un altro stato mediorientale, Israele, dispone di un arsenale nucleare segreto sul quale la comunità globale non ha mai fatto troppe domande e, di più, la bomba musulmana esiste già in mano al Pakistan) – la necessità di colpire l’Iran è tutta geopolitica. Tuttavia, non si può procedere unilateralmente mettendo gli alleati di fronte al fatto compiuto, come accaduto in Iraq, né tanto meno si può rinnovare l’errore di ammantare le imminenti “missioni civilizzatrici” uitilizzando un involucro ideologico manicheo di tipo bushista, esteso a iosa ai vari contesti territoriali sotto la presidenza del “rampollo” texano (es. il famigerato “asse del male”). Brezinski sostiene che i Balcani Globali sono per gli Usa quello che per Israele è il medio-oriente, con tutto ciò che questo comporta in termini di difficoltà geostrategiche. Alla superpotenza occidentale mancano attualmente i mezzi per agire unidirezionalmente proprio perché i suoi interessi, così come sono stati posti dalle precedenti amministrazioni neocon, non inglobano le visioni altrui. Quindi, in prima istanza, c’è bisogno di ridefinire la partnership globale sulla base di valori universali condivisi che conducano gli alleati a fare realmente proprie, indentificandosi con esse, le preoccupazioni americane. Un tal genere di compito riesce meglio ad un Presidente democratico, il quale, come ribadisce Brezinski, può con il suo idealismo, l’eloquenza e la giovane età incarnare un’America benevola la cui leadership viene amata dalle folle di tutto il pianeta, ma che, non di meno, nasconde un potere ed una volontà di primeggiare assoluti (la descrizione era riservata a Clinton, eppure, come vedete, calza a pennello anche per Obama).
A partire da ciò dobbiamo aprire un altro capitolo di questo intervento soffermandoci per un attimo sulla piccola svolta attuata da Berlusconi in Israele. Questa inversione di rotta verbale sta già producendo delle conseguenze pratiche che non si può fingere di non vedere. Non è la prima volta che esponenti del governo italiano stigmatizzano l’Iran per il suo odio contro Israele o per la sua ricerca, non autorizzata e visionata da organismi “super partes”, in campo nucleare. Ma è la prima volta che alle parole seguono i fatti.
Poiché uno degli strumenti con i quali il nostro paese conduce la sua politica estera è l’Eni, impresa di punta del settore energetico (quello più strategico e redditizio in questa congiuntura storica), proprio ad essa è stato chiesto di limitare i suoi affari con la Repubblica Islamica e di rinunciare ad ulteriori contratti. L’AD del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha ricordato che già a partire dal 2001 (anno in cui si raggiunsero i 5 mld di investimenti) la sua azienda non conclude nuovi accordi, anche se, in questi ultimi tempi, il flusso commerciale con l’Iran si era comunque esteso sino a 6 mld di euro. Cifra precipitata di un 40% pieno nel 2009. Di questo passo e in questo clima bellicoso non è detto che non aumenteranno le pressioni internazionali (cioè americane) per spingere Roma a disattendere anche i contratti in essere. Questa notizia è talmente verosimile che, a quanto pare, Berlusconi sta per consegnare una lettera a Scaroni contenente i freschi diktat italiani sulle ultime diatribe con l’Iran, grazie alla quale il capo di Eni potrà giustificare, dinanzi alle autorità iraniane ed ai suoi azionisti, il progressivo disimpegno economico dal Paese degli Ayatollah. Tutto questo è di una gravità inaudita perché toccare l’Eni e contenerne i movimenti internazionali significa legare le mani all’intera politica estera del Bel Paese [1]. A quanto detto va aggiunta l’offensiva interna, con gli organismi comunitari in prima fila, tesa ad ingabbiare le iniziative dell’Eni sul mercato europeo, rimettendo in questione i suoi rapporti privilegiati con Gazprom. Anche nel Vecchio Continente il “colpo” per la nostra azienda energetica è stato durissimo, sia sotto il profilo simbolico che sotto quello economico. L’Ente nazionale idrocarburi, il cui azionista di maggioranza resta il Tesoro con il 30% delle azioni, è stata costretta dall’Antitrust europea a mettere sul mercato i cosiddetti tubi di Mattei, quelli che il compianto Presidente marchigiano considerava fondamentali per la proiezione strategica dell’Italia sui mercati esteri. Pur se il gasdotto Tag (Russia) resterà in capo alla CDP – soluzione frutto di una mediazione faticosa tra Italia ed Ue – da questo momento in poi gli appetiti politici sullo stesso saranno di certo più copiosi. Praticamente perse sono invece le due pipelines Tenp e Transitgas del Mar del nord, diritti di transito a parte. Ma si tratta di una magra consolazione perché la filosofia dell’azienda di San Donato è da sempre orientata al controllo diretto delle proprie infrastrutture, cosa che le consente di trattare, da una posizione di forza, con omologhe straniere e corrispettivi governi nazionali. Si tratta della stessa questione ribadita, in una lettera di qualche tempo fa a “Il Giornale”, da un rappresentante di vertice della Gazprom il quale si premurò di denunciare l’autolesionismo italiano su un’azienda di grandi potenzialità che, seguendo queste tortuosità nella definizione proprietaria dei suoi assetti, finiva per diventare un partner senza capacità decisionali immediate. Proprio detta caratteristica aveva reso l’Eni, benché più piccola di altre multinazionali del settore, un referente adeguato per le grandi imprese di Stato leaders nei tubi e nell’estrazione di materia prima, come appunto il colosso energetico russo Gazprom (il quale aveva dichiarato esplicitamente di preferirla, rispetto alle speculari imprese inglesi o francesi, per la rapidità nel sapere scegliere il meglio per sé e per il proprio paese).
Questo è il quadro della nuova situazione con le piccole e grandi decisioni internazionali, commerciali e industriali annunciate dal governo. La situazione è peggiorata molto rispetto a pochi mesi fa e l’Italia sembra essere ritornata, simmetricamente ed acriticamente, ad aderire alle richieste europee e statunitensi sulla politica estera e sugli accordi bilaterali (da fermare) con i paesi non graditi a Washington. Si sta rinunciando, pertanto, a quell’abbozzo di linea d’azione autonoma, sulle grandi questioni geopolitiche di questo primo scorcio del XXI secolo, sulle quali il governo Berlusconi si era inizialmente smarcato dagli “amici” atlantici per rispondere meglio alle sfide di riequilibrio dei rapporti di forza aperte dai tempi.
Per tale motivo dobbiamo immediatamente organizzarci ed alzare un muro di protezione sulle conquiste già ottenute. Prioritariamente, l’idea che sarà lanciata nei prossimi giorni dal blog, con un’analisi più dettagliata della situazione, è quella di costituire un Comitato strategico (oppure un Osservatorio nazionale) di difesa dell’Eni dagli attacchi di Usa ed Ue e dai cedimenti del governo sui temi dell’energia e della politica estera. Proprio perché detta impresa, in questa particolare fase storica di multipolarismo, veicola importanti scelte internazionali dell’Italia nel grande gioco della geopolitica mondiale, dobbiamo assumerci il compito di raccogliere ogni possibile informazione, denunciando, contestualmente, le aggressioni, subdole od esplicite (messe in pratica da Stati e nazioni solo apparentemente amici), volte a depotenziarla sui mercati esteri o ad indebolirla sulle posizioni di privilegio già guadagnate. Difendere l’Eni, secondo questa impostazione, significa proteggere l’Italia da chi vuole ridurla al rango di nazione subimperiale.
Nota:
1. Per ribadire il concetto ecco una notizia riportata su Il Giornale on line del 7.2.10: “E sulla questione iraniana tra Berlusconi e Gates [segretario alla difesa statunitense] c’è piena sintonia. L’Italia, infatti, è disponibile a partecipare alla definizione di uno schieramento internazionale che coinvolga i Paesi europei per definire le sanzioni da applicare, cosa che il Cavaliere ha ripetuto nella sua recente visita in Israele anche a Netanyahu. Un’attività di mediazione che Roma potrebbe estendere anche a Russia, Turchia, Brasile e Libano. È chiaro, però, che la disponibilità italiana sul fronte delle sanzioni – pur essendo calato del 40% nel 2009, nel 2008 l’Italia era il primo partner commerciale europeo dell’Iran – avrà un costo, soprattutto per le aziende esportatrici del Nord. Circostanza che la diplomazia italiana ha già fatto presente a Washington e su cui tornerà domani il ministro degli Esteri Frattini nel corso del suo bilaterale con Gates.” Quindi, il governo non solo vira pericolosamente sulla politica estera rispetto a pochi mesi fa ma si presta anche ad attivare una mediazione con la Russia per ottenere l’imprimatur di Putin-Medvedev sulla probabile inversione dei rapporti con l’Iran e conseguente isolamento del paese guida da Ahmadinejad. Il risultato che Berlusconi otterrà, contro le sue previsioni, sarà quello di rovinare i rapporti con il gigante dell’est.
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