Il 19 luglio 1956, un mese dopo che Gamal Abd el-Nasser era diventato presidente dell’Egitto, gli Stati Uniti d’America – nella persona del segretario di Stato John Foster Dulles – si rimangiavano bruscamente la loro offerta di finanziare per cinquantasei milioni di dollari la Grande Diga di Assuan, la quale avrebbe dovuto recuperare all’agricoltura egiziana decine di milioni di ettari di territorio, oltre che fornire energia a basso costo all’auspicato sviluppo industriale del paese.
Il voltafaccia di Washington era sicuramente dovuto alla pressione esercitata su Foster Dulles da parte dei cotonieri statunitensi, preoccupati per l’intervento che dalla costruzione della diga sarebbe derivato alla produzione cotonifera egiziana; ma fu determinante la volontà dei circoli ebraici, i quali, impegnati a tutelare il predominio del regime sionista nel Vicino Oriente, guardavano con sospetto ad un eventuale rafforzamento dell’Egitto. Il 20 luglio anche la Gran Bretagna e la Banca Mondiale ritirarono l’appoggio che avevano promesso al progetto egiziano, rispettivamente per 15 e per 200 milioni di dollari. L’idea di finanziare la diga di Assuan rientrava nel disegno dell’Occidente di garantirsi il controllo sul mondo arabo, per fini sia geopolitici sia energetici.
Il 26 luglio, in un discorso tenuto ad Alessandria davanti ad una folla immensa, il Rais proclamò la nazionalizzazione del Canale di Suez. „Mentre sto parlando, la nostra polizia assume il controllo di tutte le installazioni della Compagnia del Canale… Trentasette milioni di lire egiziane ci vengono sottratti ogni anno dalla Compagnia. Impiegheremo questo denaro per costruire la Grande Diga, senza chiedere nulla a Londra, a Washington, a Mosca… Non sarà più l’Egitto per il Canale, ma il Canale per l’Egitto… Il mondo arabo è forte, molto forte; la sua sola debolezza sta nel non essere consapevole della propria forza”.
Le cancellerie degli Stati economicamente e politicamente più coinvolti furono in preda al panico. L’Occidente scatenò contro il Rais un’isterica campagna di stampa: mentre la nazionalizzazione della Compagnia del Canale veniva equiparata alla militarizzazione della Renania o all’Anschluss o all’annessione dei Sudeti, Nasser era bollato come „fantoccio sovietico”, „fascista”, „Hitler del Nilo”; ma questi ultimi epiteti conseguivano presso le masse arabe il risultato opposto a quello desiderato, intensificando la popolarità di colui che ne era il bersaglio.
Contemporaneamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia studiavano le possibili soluzioni della crisi: o rovesciare Nasser con un colpo di Stato sostenuto da un intervento militare e insediare al Cairo un governo fantoccio, o esercitare pressioni per indurlo ad accettare che il Canale venisse controllato da un ente internazionale.
Prevalse, a Londra e a Parigi, l’idea della guerra. Mentre i rappresentanti egiziani discutevano pazientemente alle Nazioni Unite e si manifestravano disposti ad una soluzione di compromesso che sarebbe stata firmata a Ginevra alla fine di ottobre, i governi inglese e francese guadagnavano tempo, per preparare in segreto l’aggressione armata.
Gli Stati Uniti non erano d’accordo con questa opzione, perché non intendevano lasciare ai due Stati europei uno spazio d’azione nel cosiddetto „Terzo Mondo”: il colonialismo di vecchio stampo doveva essere archiviato per sempre e sostituito dal neocolonialismo fondato sull’egemonia finanziaria.
L’intesa anglo-britannica si allargò dunque al regime sionista. Parigi cominciò fin dai primi di agosto a rifornirlo di considerevoli quantitativi d’armi, violando in tal modo quel patto tripartito del 1950 con cui Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna si erano impegnati a mantenere l’equilibrio militare tra l’Egitto e il regime sionista. I sionisti, messi al corrente dei progetti bellici anglo-francesi, avrebbero attaccato l’Egitto nell’imminenza delle elezioni americane (erano fissate per il 6 novembre), in modo che i circoli ebraici statunitensi potessero più efficacemente ricattare Eisenhower e fargli accettare l’aggressione.
Nella notte fra il 29 e il 30 ottobre, mentre l’attenzione del mondo era monopolizzata da quanto avveniva in Ungheria, quattro colonne di blindati sionisti invadevano il Sinai ed avanzavano verso il Canale di Suez. Londra e Parigi, in questa operazione concertata coi sionisti, spediscono un ultimatum sia al Cairo sia a Tel Aviv, intimando alle due parti di fermare i loro eserciti a dieci miglia dal Canale.
La sera del 31 ottobre comincia il bombardamento anglo-francese sull’Egitto. „Dobbiamo bombardarvi, dovunque siate – dicono i volantini fatti cadere dagli aerei tra la popolazione –. Pensate ai vostri villaggi distrutti, ai vostri bambini, alle vostre madri, ai vostri padri, ai vostri nonni mentre lasciano le loro case incendiate, mentre abbandonano ogni cosa… Avete commesso un errore che state pagando a carissimo prezzo: avete creduto in Gamal Abd el-Nasser”.
„Non capitoleremo davanti agli aggressori – proclama il Rais –. Combatterò fino all’ultimo con tutto il mio popolo… Non abbandonerò le città del Canale senza combattere… I paesi amici ci aiuteranno… Armeremo la popolazione… Un popolo consapevole e pronto anche all’estremo sacrificio trionfa sempre sugli aggressori, qualunque sia la loro forza materiale”.
Sul piano militare, l’Egitto rimane sulla difensiva, ma attacca in sede diplomatica: il 4 novembre viene accolta dall’ONU una proposta di Abd el-Nasser e si decide di costituire una forza di pronto impiego che raccolga i Caschi Blu di ventitré paesi. Ma la preparazione del contingente internazionale richiede alcuni giorni, sicché gli aggressori ne approfittano e continuano a bombardare le città egiziane.
Il 5 e il 6 novembre i paracadutisti franco-britannici occupano Porto Said, Ismailia e Suez, nonostante la resistenza opposta dalla popolazione del Delta, alla quale sono state distribuite le armi.
La sera del 5 novembre Mosca ha inviato un energico ultimatum ai governi di Londra, Parigi e Tel Aviv, minacciando attacchi missilistici, prospettando l’invio di truppe musulmane arruolate nelle regioni caucasiche e centroasiatiche dell’URSS e mettendo in questione la legalità dell’esistenza dello „Stato d’Israele”.
La Siria e la stessa Arabia Saudita sospendono le forniture di petrolio agli aggressori. L’India prende in considerazione l’idea di uscire dal Commonwealth. Al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Francia e Inghilterra devono ricorrere al diritto di veto per respingere le mozioni che condannano il loro intervento.
La mattina del 6, Anthony Eden chiamò da Londra il primo ministro francese Guy Mollet e lo avvisò che era costretto a ordinare il cessate il fuoco, perché aveva ricevuto un perentorio ultimatum da Eisenhower. La guerra di Suez era finita.
Abd el-Nasser, sconfitto sul piano militare, diventava l’eroe del panarabismo. L’alleanza occidentale mostrava crepe profonde; l’Unione Sovietica rientrava nella partita del Vicino Oriente come paladina dei diritti arabi; la Francia e l’Inghilterra dovevano piegarsi davanti al volere del loro ingombrante „alleato” d’oltreoceano, cedendogli definitivamente il passo nel Mediterraneo.
Il regime sionista era il vero vincitore della guerra di Suez. „Francia e Gran Bretagna – scrive Gianfranco Peroncini nella Guerra di Suez (Edizioni all’insegna del Veltro, 1986, p. 38) – avevano perso (…) Era Israele a servirsi della loro debolezza e del loro intervento militare per raggiungere i suoi fini. Era un destino forse non difficile da prevedere. Giocati, umiliati e con un pugno di mosche in mano, a Eden e Mollet non restava che meditare amaramente sulle parole di Dante: Se mala cupidigia altro vi grida, / Uomini siate, e non pecore matte, / Sì che il giudeo di voi tra voi non rida!”
Le „pecore matte” della situazione ricevettero in dono da Ben Gurion una medaglia su cui era inciso un motto biblico: „La tua mano destra è il mio sostegno”.
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