A distanza di qualche anno, le prese di posizione statunitensi sul presunto genocidio armeno cambiano almeno apparentemente, di segno, ma la sostanza non cambia.
Nel 2000, durante la campagna elettorale, Bush prometteva il riconoscimento americano del genocidio, e l’anno successivo la Commissione esteri del Congresso votava un testo analogo a quello licenziato in questi giorni: allora fu il Presidente Clinton – democratico – a convincere lo speaker del Congresso – a quel tempo esponente repubblicano – a bloccare il processo di ratificazione della mozione.
Oggi è Bush che si rivolge al Presidente della Camera – Nancy Pelosi – per fermare la “risoluzione 106”, non perché si sia convinto dell’innocenza dei turchi ma, come ha affermato il suo portavoce Gordon John, “per il grave pregiudizio che la risoluzione potrebbe arrecare alla sicurezza degli Stati Uniti” – il riferimento alla guerra in Iraq e al paventato intervento militare di Ankara in quello scenario – anche in rabbiosa reazione alla pronuncia in questione – è chiaro.
I cattivi rapporti tra USA e Turchia, venuti progressivamente alla ribalta a partire dall’attacco americano in Iraq (2003) vivono dunque un’altra pagina intensa, ma con qualche complicazione in più che imbarazza gli osservatori occidentali e che è invece bene sottrarre a tabu e censure preventive.
Nella seconda metà di agosto, a fare da apripista alla pronuncia della Commissione esteri era stata l’ADL (Anti Defamation League), espressione della lobby ebraica americana: un direttore regionale era stato dapprima censurato dal presidente dell’ADL per avere parlato di “genocidio armeno” ma poi – a furor di popolo, o meglio delle numerose organizzazioni ebraiche presenti sul suolo americano – il funzionario veniva riabilitato, e l’espressione controversa (“genocidio armeno”) adottata e rivendicata dall’ADL.
Da qui le accesissime proteste del governo di Ankara, rivolte in particolare verso Israele, e un’imbarazzata sorta di equidistanza di Tel Aviv tra la potentissima lobby d’Oltreoceano e il tradizionale alleato turco.
Per Israele, le organizzazioni ebraiche americane che sostengono l’ADL sono fondamentali, non solo per il cospicuo sostegno economico/finanziario ma anche per il ruolo insostituibile di cinghia di trasmissione con il Congresso e con la politica estera statunitense.
Così, l’azione di denuncia del presunto genocidio è andata avanti, con il vigoroso appoggio della piccola ma agguerrita lobby pro armena americana, rappresentata da deputati e senatori sia democratici che repubblicani – basti ricordare i nomi di Joe Knollenberg, di Gorge Radanovich, di Joe Biden e della stessa Nancy Pelosi, attiva sostenitrice della campagna in corso per il riconoscimento del genocidio.
Da parte sua la Turchia, contrariamente a altri paesi, non intende demonizzare la propria storia in nome di un “passato che non passa”, e contesta con decisione l’esistenza del presunto genocidio, sul quale gli storici sono divisi: violenze e brutalità furono certamente compiute negli anni della Prima guerra mondiale dai turchi sugli armeni – violenze e brutalità d’altronde reciproche – ma la cifra di un milione e mezzo di vittime armene – che certamente giustificherebbe l’adozione del termine genocidio – appare del tutto fantastica e irreale.
Ankara – che, piaccia o no, ha compiuto in questi ultimi anni passi significativi sulla strada di una posizione internazionale più equilibrata e indipendente, in chiave eurasiatica più che euroatlantica – intende agire in proprio, e non sotto tutela; avendo fra l’altro stabilito relazioni più distese proprio con l’Armenia – rapporti commerciali e dialogo politico in crescita, con 70.000 armeni che vivono pacificamente in territorio turco e linee aeree e di autobus che collegano i due paesi.
Si verifica una situazione in qualche modo analoga a quella curda: allorché il governo Erdogan si sforza di avviare a risoluzione quella annosa questione (riconoscimento della lingua curda, distensione verso i rappresentanti politici curdi, ecc,) il terrorismo del PKK incalza con recrudescenza (13 soldati uccisi a Sirnak lo scorso 7 ottobre, per citare solo l’episodio più grave), e ciò nel contesto del caos generalizzato iracheno provocato dall’interventismo bellico americano.
Ora, in una prospettiva di possibile sistemazione dei rapporti turco-armeni, la risposta sembra essere sempre quella dello scontro di civiltà – dopo Lepanto e l’assedio di Vienna, dopo il “terrorismo islamico” continuamente richiamato dai media filoatlantici per attribuirvi ogni episodio di violenza, dovunque accada, ecco un massacro epocale di buoni cristiani perpetrato dai barbari musulmani …
Una frattura storica permanente, una ferita insanabile in un’area geopoliticamente strategica ove le ambizioni statunitensi esigono conflitto e divisione: va in questa direzione l’eventuale approvazione della “risoluzione 106” da parte del Congresso americano – una decisione che in qualche modo interessa non poco tutti i paesi affacciati sul Mediterraneo.
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