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LXXVI – L’Occidente allo sbando

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Quale che sia l’esito delle imminenti elezioni presidenziali statunitensi, il momento unipolare è ormai prossimo alla sua scadenza, mentre si avvicina la prospettiva di un ordine internazionale multipolare. Intanto la potenza egemone dell’Occidente, con la barcollante amministrazione Biden commissariata dal duo Harris-Blinken, è priva di una sua guida effettiva. In questo particolare frangente, cerca di consolidare il suo potere una componente del sistema egemonico occidentale che solo in linea teorica è periferica: Israele.

Descrizione

GEOPOLITICA E GEOSTRATEGIA

L’origine della geopolitica quale specifico campo di studi risale alla fine del sec. XIX, ma i temi che costituiscono l’oggetto della sua riflessione furono già dibattuti nell’antichità greca e romana. Platone affrontò il tema della posizione geografica della polis, mostrandosi contrario alla vicinanza del mare per i danni che ne sarebbero provenuti; Aristotele esaminò le opportunità e gli svantaggi di una tale ubicazione; Per quanto riguarda in particolare Roma, Cicerone constatò che agli aspetti vantaggiosi della distanza dal mare si aggiungevano quelli, altrettanto positivi, della navigabilità del Tevere, per cui nessuna città situata in un’altra parte dell’Italia avrebbe forse potuto mantenere più facilmente una così grande potenza.

Questo inizio di XXI secolo è non solo l’esordio della multipolarità, ma anche l’inizio dello spostamento del centro di gravità verso il cuore continentale del mondo, a detrimento delle talassocrazie periferiche. Si tratta di un fenomenale rovesciamento del rapporto di forza su scala storica e globale. Le più grandi risorse energetiche (petrolio, gas, materie prime) e le più grandi potenze economiche e militari sono degli Stati continentali che controllano grandi spazi e si alleano a numerosi Stati del continente africano. Gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale rappresentano il 25% della popolazione mondiale, mentre il 75% è aggregato intorno alle due potenze continentali russa e cinese. È la fine dell’era talassocratica.

Partiamo da un principio: non esistono “Wunderwaffen”. Qualsiasi arma senza una dottrina di impiego, senza operatori addestrati, senza un apparato industriale a sostegno, è di per sé inutile o persino dannosa per chi la impiega ritenendo che essa sola porterà alla vittoria. Vi sono però tecnologie – non quindi singoli sistemi d’arma – che contribuiscono a rivoluzionare il campo di battaglia e quindi le dottrine e le strategie, spesso anticipandole: velivoli e veicoli a controllo remoto sono senza ombra di dubbio tra queste.

DOSSARIO | L’OCCIDENTE ALLO SBANDO

Nel momento in cui viene scritto questo articolo mancano pochi mesi alle elezioni presidenziali statunitensi (novembre 2024). Ciò che quest’anno le rende meno scontate del solito è la particolare congiuntura internazionale (una delle più gravi degli ultimi ottant’anni). Di fatto, esiste il serio rischio che l’attuale “guerra mondiale a pezzi” si possa rapidamente trasformare in una conflagrazione bellica su vasta scala. (Alcuni ufficiali britannici hanno sostenuto la tesi che tale conflitto possa avere inizio prima del 2027, ma esiste la possibilità che i tempi siano più ristretti). In questo particolare contesto storico-geopolitico colpisce il fatto che l’Occidente egemonizzato dagli Stati Uniti sia privo di una guida reale, con la barcollante amministrazione Biden (in larga parte responsabile di tale situazione) commissariata dal duo Harris-Blinken, mentre una nuova (eventuale) amministrazione Trump si impegnerà in primo luogo in una resa dei conti tra gli apparati di potere nordamericani. In questo “vuoto di potere”, emblema di un momento unipolare ormai in procinto di terminare, sta cercando di ritagliarsi il suo spazio al vertice una componente del sistema egemonico USA che solo in linea teorica è “periferica”: Israele.

L’attacco ucraino alla regione di Kursk dello scorso 6 agosto ha ridato linfa vitale alla speranza occidentale di una possibile vittoria ucraina. L’offensiva di Kursk, infatti, arriva dopo quasi due anni di insuccessi, durante i quali l’attenzione mondiale si è concentrata sulla Palestina e gli scettici occidentali hanno iniziato ad acquisire spazi. Ma, se inizialmente la spallata ucraina è stata un successo, i suoi esiti a lungo termine sono molto più dubbi, e non è affatto improbabile che alla fine quella di Kursk si riveli l’ennesima illusione occidentale.

Dal 2018, le relazioni tra Stati Uniti e Cina si sono progressivamente deteriorate, influenzate dalla guerra commerciale lanciata da Trump e da altri fattori come la pandemia e le tensioni regionali. Anche nel corso del mandato di Biden, gli Stati Uniti hanno continuato ad alimentare la rivalità tra le due superpotenze con politiche anticinesi e sanzioni.

Élections, piège à cons” (Elezioni, trappola per c…oni). I più vecchi ricorderanno questo slogan, che ebbe fortuna in Francia nel maggio 1968 e fu ripreso da Jean-Paul Sartre. Questo discredito delle elezioni è ben lungi dall’essere una prerogativa del movimento anarchico. Il comico Coluche dichiarava: “Se votare cambiasse qualcosa, lo avrebbero vietato da un bel pezzo”; e Louis-Ferdinand Céline scrive in Bagatelles pour un massacre: “Io non ho mai votato in vita mia! La mia tessera elettorale deve trovarsi ancora in municipio… Ho sempre saputo che i coglioni sono in maggioranza e quindi è naturale che vincano le elezioni.” È esatto: il suffragio universale ha il potere di far emergere personaggi che non hanno la testa completamente a posto. Aggiungiamo, in certi casi, la mancanza di coscienza politica e la corruzione. L’astensionismo, sempre più massiccio, così come il numero delle schede bianche e nulle, indica un esteso rifiuto dell’offerta politica, se non addirittura un rifiuto di questo simulacro di democrazia.

L’articolo esamina preliminarmente l’evoluzione dei fondamenti costitutivi della Repubblica Turca, pertanto del concetto di sovranità, “da Atatürk a Erdoğan”, ossia al sorgere della repubblica nata all’indomani del crollo dell’Impero ottomano e nella Turchia dei nostri anni, che ha saputo recuperare in non piccola parte la sua identità e le proprie tradizioni, soprattutto il suo rapporto con la religione che il laicismo kemalista intendeva sradicare. Fra i due modelli di Turchia in questione tuttavia un filo conduttore lo si può rinvenire, ed è la comune intenzione di instaurare uno Stato autorevole dedito alla cura del bene comune. La seconda parte dell’articolo prende in considerazione l’ipotesi – piuttosto verosimile – di un’affermazione di Donald Trump e del suo “sovranismo” alle elezioni presidenziali statunitensi, e ne valuta le conseguenze sulla politica turca: lungi dal consolidare un fronte comune “sovranista” atlantista fra Washington e Ankara, la riproposta del trumpismo e del suo rozzo e paranoico atteggiamento nei confronti dell’Islam determinerebbe un deciso allontanamento dei Turchi dalle sirene occidentali.

In Israele il fatto di mettere in discussione le descrizioni bibliche è percepito come una minaccia al “diritto storico alla terra” e all’identità israeliana. Come afferma Ze’ev Herzog, storico e archeologo dell’Università di Tel Aviv, “Parte della società israeliana è pronta a riconoscere l’ingiustizia che è stata fatta agli abitanti arabi del paese, ma non è in grado di accettare i dati archeologici che infrangono il mito biblico. […] L’impero di Davide e Salomone era al massimo un piccolo regno tribale, e non c’è nessuna fonte che testimoni la fede nel Dio di Israele. Questi fatti sono noti da anni, ma Israele è un popolo testardo e nessuno vuole sentire discutere il racconto biblico” (Ze’ev Herzog, Archeologia biblica. Archivi, 29 ottobre 1999).

La pubblicistica occidentale sul pluridecennale conflitto nello Yemen in molti casi non è andata oltre la definizione dello stesso come “proxy war”: ovvero, come scontro tra fazioni più o meno sostenute da attori esterni con i loro rispettivi interessi di breve e lungo periodo. Non solo. Le analisi prodotte dai centri studi di Washington (in larga parte al soldo del Pentagono) sono addirittura arrivate ad utilizzare schemi propri delle scienze economico-finanziarie per valutare le potenziali evoluzioni dello scontro. Così l’Iran – ritenuto patrono della causa houthi – diviene un attore in cerca di espansione sul mercato e di opportunità sulle quali investire, mentre gli Houthi divengono “l’agente” in una sorta di riproposizione geopolitica della teoria economica del modello contrattuale gerarchico. Ad onor del vero, il conflitto nello Yemen ha radici assai più profonde e, sotto certi punti di vista, è inscindibile dallo sviluppo di forme di resistenza a quel processo di “desacralizzazione dello spazio” che va di pari passo con “l’occidentalizzazione del mondo”.

La Thailandia si trova stretta fra due giganti: gli Stati Uniti, coi quali fu stipulata una serie di accordi al tempo della guerra del Vietnam, e la Cina, che pur non confinando con la Thailandia le è geograficamente molto vicina, mentre la limitrofa regione dello Shan, nel Myanmar nord-orientale, ha strette relazioni economiche ed etniche con il nord della Thailandia.

Il governo della nazione principe dell’Alba bolivariana è alle prese con l’ennesimo tentativo di sovversione messo in atto dall’imperialismo statunitense nel subcontinente indioamericano. Incoraggiati dal sostegno dei governi neoliberisti (quello argentino di Javier Milei fra tutti) e dalla timidezza dei pochi giganti regionali (in particolare il Brasile di Lula), gli USA stanno replicando i tentativi di isolare il chavismo già fatti ripetutamente dal 2017 ad oggi, ma senza ottenere alcun successo significativo.

Negli anni Settanta del secolo scorso la Compagnia di Gesù riattivò nell’America latina la sua sperimentata strategia teopolitica, presentando la “teologia della liberazione” come un’elaborazione dottrinale tipicamente sudamericana, mentre in realtà si trattava del prodotto di teologi europei, in particolare dei gesuiti che avevano prodotto la “nouvelle théologie” denunciata da Papa Pio XII nell’enciclica Humani generis del 1950. Il principale centro di diffusione di tale dottrina era stato l’Università gesuita di Louvain, in Belgio: lì si alimentarono i teologi latinoamericani. Attualmente, col pontificato del gesuita Bergoglio, assistiamo ad una nuova fase della plurisecolare tattica ignaziana. Esperti di sincretismi dottrinali e di ibridazioni cultuali coi miti e con le pratiche religiose indigene, i gesuiti recuperano riti e “teologie” delle etnie autoctone – e ciò ad opera di uno degli ordini religiosi cattolici più “prestigiosi”, che ha fortemente influenzato il destino dell’America latina ed ancor più lo influenza adesso, avendo il Vaticano sotto il suo controllo.

A seguito del vile attentato di matrice sionista in cui ha perso la vita Ismail Haniyeh (che in quanto capo negoziatore per la tregua a Gaza era provvisto di garanzie diplomatiche), la guida politica del Movimento di Resistenza Islamico è stata assunta da Yahya Sinwar. Già fedelissimo di Ahmad Yasin (che gli affidò la direzione dell’organizzazione di sicurezza interna al-Majd) ed a capo di Hamas a Gaza, nel corso dei ventitré anni trascorsi nelle carceri israeliane (di cui quattro in isolamento), Yahya Sinwar ha elaborato un raffinato pensiero filosofico-politico, i cui principi fondamentali si possono ritrovare nel romanzo storico (parzialmente autobiografico) intitolato Al-shawk wa’l qurunful (La spina e il garofano), del 2004.

INTERVISTE

Intervista ad Antonella Ricciardi a cura di Federico Dal Cortivo.

DOCUMENTI

A questa lettera, che il Gran Muftì di Gerusalemme inviò il 20 gennaio 1941 da Bagdad al Führer tramite il proprio Segretario personale, Haddad, diede riscontro da Berlino il Segretario di Stato Freiherr Von Weizsäcker col messaggio seguente, datato 8 aprile 1941. Cfr. Stefano Fabei, Guerra santa nel Golfo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1990, pp. 74-76.

Discorso pronunciato dall’ex presidente dell’Iraq dai microfoni di Radio Berlino il 3 Aprile 1942, in occasione del primo anniversario della rivolta irachena. Si veda: Stefano Fabei, Guerra santa nel Golfo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1980.

Discorso pronunciato dal Gran Muftì di Gerusalemme il 17 giugno 1943 dalla stazione di Radio Bari, in occasione del tredicesimo anniversario della condanna a morte di patrioti arabi della Palestina. (Da “Oriente Moderno”, 1943, pp. 275-278)

Johann von Leers, Die grünen Banner der Freiheit. Zur nationalen Erhebung in Nordafrika, “Der Weg” (Buenos Aires), 10/1955, pp. 633-640. Dello stesso autore: Elementi comuni nella storia italiana e germanica, “Eurasia”, 2/2023; L’Inghilterra. L’avversario del continente europeo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2004; Contro Spengler, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011.

RECENSIONI E SCHEDE

Youssef Hindi, Il conflitto israelo-palestinese (Alessandra Colla)

Antonio Arena, Finis Europae? L’Europa non è NATO (Adelaide Seminara)

Claudio Ciani, Spazio vitale o grande spazio? (Claudio Mutti)

M- Bardèche – F. Duprat – P. Rassinier, L’aggressione sionista – Il nemico dell’uomo (Adelaide Seminara)

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